Il 17 giugno scorso è stata la trentesima Giornata mondiale Indetta dall’Onu per la lotta alla desertificazione. Proprio in quell’occasione l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha fornito gli ultimi dati relativi al suolo italiano, aggiornati al 2019.

I numeri non sono entusiasmanti. In Italia, infatti, il 17,4% della superficie nazionale presenta evidenti segni di degrado che si manifesta in forme diverse: dall’erosione alla salinizzazione, dalla compattazione alla contaminazione e all’impermeabilizzazione.

L’Ispra ha calcolato questo dato usando i principali indicatori Onu di settore, ovvero lo stato e il trend di copertura del suolo, di produttività e di contenuto di carbonio organico.

Il degrado del territorio e la desertificazione – che ne rappresenta il livello più grave – stanno del resto avanzando ovunque. A livello mondiale la situazione è addirittura peggiore. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione (UNCCD), fino al 40% del territorio mondiale, infatti, è già degradato, e ne va di mezzo quasi la metà dell’umanità. Ogni secondo viene degradato l’equivalente di quattro campi da calcio di terreno sano, per un totale di 100 milioni di ettari ogni anno.

L’Ispra osserva che vengono messi a rischio i servizi essenziali per la vita umana che il suolo offre, in primo luogo la produzione agricola, ma anche la capacità di contenere i corsi d’acqua e contribuire alla gestione delle risorse idriche e di conservare in maniera permanente la CO2 in eccesso.

Il cambiamento climatico e l’uso non sostenibile del suolo sono le principali minacce. Inverni sempre più caldi, piogge troppo scarse o troppo violente, infatti, minacciano la salute del suolo anche in Italia. Se il Sud è colpito dalla scarsità di precipitazioni, al Nord si pone spesso il problema opposto: le piogge sono sempre più intense e concentrate, connesse a eventi meteorologici estremi, e il terreno fatica ad assorbirle con la conseguenza di provocare alluvioni e dissesti.

Tutte le regioni italiane (tranne la Valle d’Aosta) sono più povere d’acqua rispetto alla media degli ultimi 30 anni. Greenpeace cita in particolare la Sicilia (-2%), la Puglia (-1,2%) e la Calabria (-1,1%) che registrano i cali più significativi. Percentuali che, secondo gli esperti, rappresentano un campanello d’allarme, perché solo una parte dell’acqua trattenuta al suolo è disponibile per le piante, e la perdita di un solo punto percentuale equivale a una riduzione significativa del serbatoio di acqua a cui possono attingere che deve essere compensata con l’irrigazione.

Mentre l’agricoltura intensiva basata su sostanze di sintesi rischia di aggravare la situazione, determinando un impoverimento del terreno, le tecniche agroecologiche che utilizzano fertilizzanti organici aumenta la capacità del terreno di trattenere l’umidità, mantenendo le capacità produttive dell’agricoltura sul lungo periodo.

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